Articoli di approfondimento
Fisco e contabilità
Quando
si parla di compensi amministratori si aprono una serie di concetti, di
calcoli, di regole, che non sempre sono del tutto chiari, in primis allo
stesso imprenditore, che spesso si fida ciecamente di quanto gli propone
il suo commercialista, senza approfondire i meccanismi.
Non
vorrei essere fraintesa, sicuramente è giusto fidarsi del proprio
commercialista e dei propri consulenti, ma ritengo al tempo stesso sempre
utile cercare comunque di capire a fondo, almeno per grandi linee, come
funzionano determinati aspetti della propria azienda. Non per non fidarsi,
ci mancherebbe, ma piuttosto per avere un quadro abbastanza chiaro delle
cose e potere così affrontare meglio, a quattro mani, con il
proprio commercialista di fiducia, questo argomento che è tanto importante
quanto complesso.
A
volte questo aspetto viene infatti affrontato in maniera un po'
sbrigativa, e mi capita con una certa frequenza di vedere società con compensi
amministratori talmente elevati da assorbire quasi tutto l'utile
aziendale.
Ecco
che allora diventa davvero importante comprendere, almeno in linea di
massima, qual'è la cornice normativa all'interno della quale ci muoviamo
quando parliamo di compensi agli amministratori.
Un
aspetto a cui prestare molta attenzione è quello della congruità.
In poche parole il compenso deve in qualche modo essere congruo rispetto
all'attività prestata dall'amministratore. Non è una pignoleria, non
è qualcosa che ho inventato io, il principio alla base di tutto è quello
dell'inerenza. In poche parole, fiscalmente parlando, un costo è
deducibile se e nella misura in cui è inerente l'attività. L'inerenza
deve essere valutata non solo in senso funzionale, ma anche quantitativo.
Questa tesi è stata ripetutamente considerata valida dalla Corte di
Cassazione, proprio con riferimento alla congruità dei compensi
amministratori, con un orientamento ormai consolidato da molti anni (tra
le altre Cass. 3243/2013, Cass. 9036/2013, Cass. 24379/2016, solo per
citarne alcune).
In
poche parole, il compenso amministratore deliberato dall'assemblea, pur
vincolante per la società, può essere considerato fiscalmente indeducibile
qualora sproporzionato rispetto all'attività prestata
dall'amministratore.
Attenzione
che il compenso amministratore si riferisce all'attività prestata solo
ed esclusivamente per l'ufficio di amministratore, non per
l'eventuale altro lavoro svolto come socio nell'attività aziendale. Su
questo punto noto, a volte, un po' di confusione, ma l'ufficio di
amministratore è qualcosa di diverso, e separato, rispetto al lavoro
"operativo" aziendale.
Gli
amministratori, per il Codice Civile, hanno il compito di gestire
l'azienda, questo significa prendere le decisioni, stipulare i
contratti, redigere il bilancio, e così via. Parliamo di compiti di tipo
direzionale. Il socio, ancorché amministratore, che serve i clienti al
banco, svolge anche un'attività di tipo "operativo", e non solo direttivo.
Ne consegue che il compenso amministratore deve essere valutato, nella sua
congruità, per la sua attività "propria" di amministratore, ossia di
tipo direttivo, non per servire i clienti al banco che non è e non
può essere considerata correlata alla carica di amministratore.
Per
fare un esempio, deliberare 50.000 Euro annui ad un amministratore il cui
compito si dimostri essere quello di partecipare ad una ventina di CDA in
un anno potrebbe pertanto essere considerato eccessivo. Deliberare invece
50.000 Euro ad un amministratore delegato di una società con una
cinquantina di dipendenti che dirige effettivamente l'impresa raramente
potrebbe essere invece contestato, in quanto proporzionato.
Come
sempre occorre entrare nel merito della singola azienda e non c'è una
risposta magica valida per tutti i casi.
Tuttavia
è una valutazione che occorre fare, e con molta attenzione, perché il
rischio altrimenti è che in caso di verifica l'Amministrazione Finanziaria
possa contestare la deduzione di compensi amministratori ritenuti non
congrui, recuperando imposte, interessi e sanzioni.
Ma
poi, al di là della questione della congruità, vale veramente la pena
deliberare compensi molto elevati agli amministratori?
La
risposta potrebbe sorprendere, perché è: non sempre. Cioè anche da un
punto di vista economico ed aziendale non è sempre la soluzione più
conveniente trovarsi in carico alti costi relativi ai compensi
amministratori. Vediamo perché.
Occorre
entrare un po' nel dettaglio della tassazione di questi compensi. Parliamo
chiaramente di amministratori che sono anche soci, in quanto è la
casistica più frequente ed anche perché c'è una reale necessità di capire
come "inquadrare" il lavoro dei soci (che in Italia è un bel problema...
in quanto un rapporto di lavoro subordinato è possibile solo quando è
oggettivamente possibile una reale subordinazione, cosa che con figure che
sono al vertice della società è spesso molto difficile che possa esserci,
pensiamo ad esempio ad amministratori delegati con ampi poteri, ad
amministratori che siano anche soci di maggioranza, e così via).
Spesso
la richiesta dell'azienda ai propri consulenti è quella di permettere che
(giustamente) i soci, che spesso nelle PMI prestano la loro attività sia
come amministratori che nel lavoro quotidiano aziendale, possano avere il
loro compenso.
Fin
qui naturalmente tutto giusto, nulla da eccepire, ci mancherebbe. Il punto
è che tipo di compenso è possibile erogare.
Parlando
di compensi amministratori, gli stessi sono riferibili come detto solo
all'attività propria dell'ufficio di amministratore. E se il socio lavora
in azienda, avrà pur diritto di vedersi riconosciuto il proprio lavoro?
Certamente, ma non come compenso, ma piuttosto come dividendo.
Cerco
di spiegarmi meglio. Al di là di situazioni in cui sia possibile
stiupulare un regolare contratto di lavoro subordinato con il socio per la
propria attività nel lavoro ordinario aziendale - fattispecie che richiede
che sia possibile dimostrare un'effettiva subordinazione, con
assoggettamento al potere direzionale del datore di lavoro, il rispetto di
un orario, e così via, cosa che per i soci amministratori è difficilmente
applicabile salvi casi particolari (soci di minoranza privi di deleghe ed
effettivamente assoggettati anche disciplinarmente al CDA ed alle sue
decisioni) - la normativa vigente in Italia non offre molte soluzioni per
inquadrare il lavoro dei soci. Può sembrare paradossale, ma
purtroppo è così.
Ecco
perché molte volte vengono deliberati compensi agli amministratori
"abbondanti" senza porsi troppe domande. Tuttavia, come abbiamo visto, non
è sempre possibile, o per lo meno non è sempre regolare da un punto di
vista fiscale. E talvolta non è neppure conveniente da un punto di vista
economico.
L'alternativa,
del tutto legale, è rappresentata dalla distribuzione di dividendi.
Facciamo
un esempio. La società Alfa, composta da due soci, avrebbe un utile lodo
ante imposte di 300.000 Euro, se non considerassimo i compensi
amministratori. Tuttavia i soci hanno deliberato 80.000 Euro di compenso
lordo a ciascun amministratore. In questo caso l'utile si abbasserebbe di
160.000 Euro + INPS a carico società, circa 35.000 Euro, in pratica
resterebbe un utile lordo ante imposte di 105.000 Euro.
Ciascun
socio, dagli 80.000 Euro lordi dovrebbe pagare circa 8.800 Euro di INPS a
proprio carico e circa 23.500 Euro di IRPEF (in realtà il calcolo
dell'IRPEF è molto complicato, dipende se ci sono altri redditi, se ci
sono oneri deducibili, familiari a carico, ecc., qui facciamo un calcolo
molto approssimativo), e rimarrebbe un netto circa di 47.500 Euro. In
pratica da 195.000 Euro (160.000 Euro compensi + 35.000 contributi INPS a
carico ditta) / 2 (essendo due amministratori) = 97.500 Euro di costo
globale per la società per ciascun amministratore, il netto sarebbe di
circa 47.500 Euro. In poche parole, tra società e socio, la tassazione
complessiva tra imposte e contributi, ammonterebbe a circa 50.000 Euro per
ciascun socio, più del 51%.
Cosa
sarebbe successo se invece la società avesse chiuso il bilancio con
300.000 Euro di utile lordo, quindi senza deliberare compensi agli
amministratori, ed avesse poi deciso di distribuire 195.000 Euro ai soci
come dividendo (in pratica lo stesso costo che avrebbe sostenuto per i
compensi amministratori)?
Sarebbe
successo che la società avrebbe pagato le imposte, l'IRAP e l'IRES. L'IRAP
ci interessa poco perché essendo i compensi amministratori indeducibili ai
fini IRAP, sarebbe dovuta sostanzialmente nella stessa misura con entrambe
le soluzioni. L'IRES è invece un'imposta proporzionale con un'aliquota del
24%. Sul dividendo netto distribuito i soci di società di capitali (Srl,
SpA, ecc.) sono soggetti ad una ritenuta a titolo di imposta del 26%.
Quindi per 100 di utile lordo che viene distribuito, 24 sono pagati dalla
società (IRES), sui 76 residui i soci al momento della distribuzione
pagano 19,76 Euro, per un totale di un 43,76% totale tra società e
soci. È un calcolo un po' semplificato, ma è per rendere l'idea.
Ritornando
all'esempio, in assenza di compensi amministratori, la società avrebbe
chiuso il bilancio con un utile lordo di 300.000 lordi - 12.000 IRAP
(importo ipotizzato, come detto il calcolo IRAP è molto più complesso e
comunque sostanzialmente identico tra le due ipotesi, con compensi o senza
compensi in quanto indeducibili IRAP) - 72.000 IRES = 216.000 di utile
netto.
Se
la società avesse quindi deliberato di distribuire la stessa cifra del
costo amministratori, ossia 195.000 Euro, per tenere i calcoli
confrontabili, dovremmo obiettivamente considerare una distribuzione di
dividendi di circa 148.200 Euro, per considerare l'IRES che ha già pagato
la società sull'utile e che non avrebbe pagato in caso di compensi
amministratori, che sono deducibili ai fini IRES, sempre che siano congrui
(195.000 * 24% = 46.800).
In
questo caso i soci avrebbero poi dovuto pagare il 26% di ritenuta a titolo
di imposta sul netto, quindi 38.532 Euro complessivi, ossia 19.266 Euro a
testa. Sarebbe rimasto un netto di 54.834 Euro a testa, ben maggiore
rispetto ai 47.500 Euro che avrebbero percepito optando per il
compenso amministratore.
Questo
per dire che non sempre deliberare compensi alti agli amministratori è
conveniente. È vero che la tassazione dei compensi prevede una copertura
previdenziale, ossia il carico tributario complessivo è diviso tra imposte
e contributi, mentre nel caso di dividendi ci sono solo imposte e non
contributi (salvi quelli dell'eventuale gestione INPS commercianti, che in
questo caso - parliamo allora di Srl del terziario - cambiano sicuramente
- e di molto (v. oltre) - le cose e l'analisi andrebbe rifatta con questi
calcoli). Tuttavia la differenza in caso di cifre abbastanza elevate è
percepibile.
Questi
elementi ci forniscono allora alcuni spunti di riflessione. Le due
soluzioni presentate nell'esempio (compensi amministratori e distribuzione
di dividendi) sono due soluzioni estreme, o compensi molto alti,
difficilmente considerabili congrui, oppure nessun compenso.
Chiaramente,
come sempre, la giusta via è nel mezzo. Infatti se da un lato la
distribuzione dei dividendi ha sempre la stessa percentuale di tassazione
(tra società e soci arriviamo come detto al 43,76%), nel caso di compensi
amministratori, essendo fiscalmente assimilati ai redditi di lavoro
dipendente, vige un criterio di progressività nella tassazione, con
aliquote IRPEF via via più alte al crescere delle fasce di reddito
(scaglioni), e detrazioni IRPEF tanto maggiori tanto minore è il reddito.
Questo fa sì che la tassazione complessiva tra IRPEF e contributi
previdenziali possa andare da un minimo di circa un 27% (laddove sia
dovuta solo la contribuzione INPS, divisa tra società e soci, non
raggiungendo un minimo imponibile ai fini IRPEF, quindi su compensi
minimi) ad un 54% o anche più in caso di compensi molto elevati.
Dunque,
considerato che i soci sono anche amministratori, è sicuramente corretto
riconoscere un compenso congruo per l'attività prestata in quanto
amministratori. Tale compenso, proporzionato all'attività prestata nella
gestione e direzione dell'azienda, sconterà in molti casi le aliquote
IRPEF più basse e risulterà economicamente più vantaggioso rispetto
alla soluzione estrema di non riconoscere nessun compenso (peraltro
l'ufficio di amministratore è comunque oneroso, quindi è assolutamente
logico che vi sia un compenso, solamente deve essere congruo e
proporzionato), oppure all'altra soluzione altrettanto estrema in cui i
compensi deliberati siano troppo elevati, rendendoli quindi anche
contestabili per difetto di congruità, in cui anche da un punto di vista
economico rischiano di essere addirittura più tassati.
Se
questa è la situazione in linea generale, ci sono tuttavia alcuni aspetti
da considerare, che possono complicare un po' le cose.
Un
aspetto è quello in cui nella società lavorino diversi soci con quote
diverse di partecipazione al capitale sociale. In questo caso la
distribuzione dei dividendi, essendo proporzionale alle quote ed alle
azioni possedute da ciascun socio, potrebbe non permettere di retribuire
correttamente il lavoro prestato dai soci nell'attività operativa (e
quindi al di fuori dei compiti relativi agli amministratori). In questo
caso andrebbe valutata l'ipotesi per cui eventuali soci di minoranza
possano non essere amministratori, o almeno lo siano senza deleghe, per
valutare con il proprio consulente del lavoro se sia configurabile un
rapporto di lavoro subordinato (per cui deve essere dimostrabile
un'effettiva subordinazione ed assoggettamento al potere direttivo del
datore di lavoro, ecco perché con soci maggioritari o amministratori
delegati non è possibile, perché non si può essere subordinati a se'
stessi).
Un
altro punto che va valutato è quello meramente finanziario. I compensi
amministratori possono essere pagati tutti i mesi, mentre i dividendi
possono essere distribuiti solo dopo l'approvazione del bilancio (nelle
società di capitali, salve particolari eccezioni, non sono infatti ammessi
acconti sui dividendi). Tuttavia, anche in questo caso, occorre impostare
le cose per "fare il giro", poi una volta a regime (in pratica dopo il
primo anno di adozione del nuovo sistema) in seguito all'approvazione del
bilancio i dividendi possono essere distribuiti anche con cadenza
mensile (in pratica "rateizzati"), la cosa importante è che vengano
distribuiti solo riserve ed utili di bilanci già approvati.
Un
ulteriore aspetto da considerare, accennato poco sopra, è quello delle Srl
del settore commercio e terziario i cui soci siano iscritti alla gestione
artigiani e commercianti presso l'INPS, per via della prevalenza del
lavoro "operativo" aziendale rispetto all'attività di amministratore: in
questi caso la situazione è piuttosto complessa, perché i contributi INPS
sul reddito "virtuale" ossia il reddito di impresa della società,
indipendentemente dalla sua distribuzione, rapportato alla quota del socio
(anche se questa tesi dell'INPS risulta molto discutibile da un punto di
vista giuridico, perché i soci di Srl non conseguono personalmente redditi
di impresa, ma redditi di capitale, tuttavia qui si aprirebbe una
parentesi troppo lunga) andrebbero a sommarsi alla tassazione dei
dividendi, e tra l'altro la ritenuta a titolo di imposta precluderebbe di
fatto, in assenza di altri redditi imponibili IRPEF da parte del socio,
alla deduzione fiscale dei contributi previdenziali dovuti, per mancanza
di reddito imponibile IRPEF.
Questa
casistica dovrebbe quindi essere affrontata nel dettaglio nel suo
complesso, in quanto in questi casi potrebbe essere allora conveniente,
ricorrendone i presupposti, l'opzione per il regime
di trasparenza fiscale.
Anche
se non è possibile in poche righe affrontare una casistica così ampia ed
articolata, generalizzando (forse troppo) si può dire che, normalmente, le
piccole Srl i cui soci sono iscritti alla gestione IVS artigiani e
commercianti presso l'INPS, oppure quando, a prescindere dall'iscrizione
IVS INPS, semplicemente i redditi sono bassi, o infine quando si
distribuisce normalmente ai soci gran parte degli utili realizzati,
l'opzione per il
regime di trasparenza fiscale è generalmente una soluzione molto
interessante.
Vice
versa, per le medie e grandi Srl, in cui i soci lavorano a tempo
pieno nei compiti direzionali, di norma non si verifica la prevalenza del
lavoro "operativo" aziendale su quello di amministratori, per cui il
regime ordinario di tassazione risulta spesso più interessante,
soprattutto se e nella misura in cui una parte consistente degli utili
rimanga all'interno della società essendo destinata a riserva.
Il
problema non si pone naturalmente per le società per
azioni, che sono escluse a priori dalla possibilità di
accedere al regime di trasparenza (che peraltro sarebbe generalmente poco
conveniente per queste società, al pari delle Srl di medio-grandi
dimensioni), le quali applicano sempre e comunque il regime ordinario.
Tuttavia anche in questo caso resta fermo quanto detto sopra relativamente
all'antieconomicità, in molti casi, di elevati compensi agli
amministratori, che siano anche soci, in luogo di una regolare distribuzione
di dividendi.
Per
questo accade con una certa frequenza che, dopo un'attenta analisi
dettagliata della specifica situazione aziendale con il proprio
commercialista o con i propri consulenti di fiducia, si arriva talvolta a
constatare come gli eventuali compensi agli amministratori, forse un po'
troppo "abbondanti", siano alla fine, oltre che contestabili
dall'Amministrazione Finanziaria, anche antieconomici.
Risulta
quindi importante dedicare del tempo insieme ai propri consulenti per
potere mettere a fuoco questo aspetto. Come abbiamo potuto vedere,
giocare solo sui compensi amministratori, anche se è la soluzione
apparentemente più semplice e sbrigativa, non è sempre la soluzione
migliore. A volte può essere contestabile per difetto di congruità, altre
volte non è neppure economicamente conveniente.
Ultima,
ma non per importanza, una considerazione sugli effetti di "sostituire"
alcuni compensi amministratori con una regolare distribuzione di
dividendi. I compensi amministratori, essendo un costo per la società, abbassano
l'utile di bilancio. Questo vuol dire che chi guarda il bilancio
nota una redditività minore, le banche in primis. Ed anche
l'Agenzia delle Entrate, ad esempio con gli ISA (Indici Sintetici di
Affidabilità Fiscale, ex studi di settore) considera i maggiori costi nel
calcolo del punteggio finale di affidabilità, con la conseguenza che
maggiori sono i compensi agli amministratori, maggiori sono i costi,
maggiore è la redditività presunta, e quindi minore rischia di essere il
punteggio finale calcolato dal software ISA.
Per
tutti questi motivi, oltre alla necessità di rispettare la normativa
vigente (provate ad immaginare un controllo fiscale che contesti la
congruità dei compensi amministratori richiedendo IRES, sanzioni ed
interessi su tali compensi per gli ultimi anni precedenti la verifica),
molte volte esagerare con i compensi amministratori, non è affatto
conveniente, né utile, e tra l'altro rende un'idea distorta della
redditività aziendale.
E
poi non è difficile immaginare che quando una società che avrebbe 100 di
utile, ma ha 90 di compensi amministratori, con un utile finale lordo di
10 ed un utile netto di 7, richiede un affidamento in banca...
beh... è normale che vengono richieste firme di garanzie da
parte dei soci, rendendo una società di capitali di fatto
simile ad una società di persone. Ma di questo ne ho parlato meglio in un
altro articolo, relativo alle banche
ed alle garanzie.